sabato 4 maggio 2013

Stairway to heaven di mattoni gialli: Welcome to my Hell’s Kitchen


Bussai alla porta di Francesco con il mio futuro pranzo in mano, legato che sembrava uno di quegli esploratori da cartoon catturato dai cannibali, in cerca di una ricetta a cinque stelle in onore del pennuto che tanto mi aveva tormentato. E chi poteva saperla meglio di lui, che veniva dalla patria del salume assortito?
Bussai con forza.
<<Francé! Esci, che ti devo parlare!>>
Nessuno rispose. Riprovai.
<<Dai, Francé, mi serve un consiglio per una ricetta!>>
Niente, di nuovo; probabilmente si era fumato qualche sequoia e stava smaltendo a letto. Ma del resto, realizzai che forse non sarebbe stata una buona idea: lui con gli animali ci parlava, mica li cucinava.
Andai in cucina e legai il corvo in modo che non potesse muoversi sul bancone, mentre cercavo su Internet una ricetta all’altezza della mia vendetta; per mia sfortuna, le pietanze a base di gracule non sono così diffuse e apprezzate, quindi decisi di desistere, per il momento, e di darmi a una sana, genuina razione di pasta col tonno.
Lo so, erano le otto del mattino, ma la fame è fame, e la fame chimica è fame al cubo.
Il corvo poteva aspettare tempi migliori (in cui fossi stato più lucido, o meno affamato).
Molti avrebbero, al posto mio, pensato che sarebbe stato meglio dormire della grossa, ma io, come forse avrete capito, non sono molto sulla lunghezza d’azione dei ‘normali’; anzi, sapendo che i miei coinquilini ultraterreni ronfavano della grossa, mi balenò in mente un’idea per vendicarmi della trollata epocale subita il giorno prima dal Creatore di tutto ciò che riluce e dal Patriarca del lucidalabbra al glitter. Andai in camera e presi la mia chitarra con tanto di plettro, mi schiarii la gola (pentendomene all’istante…poco mancava che rifacessi l’impiantito a forza di sputi), attaccai il jack alla presa dell’amplificatore e con l’ispirazione del già citato Brandon Lee mandai una vibrazione tonante delle corde per poi intonare a tutto volume ‘O sole mio’ (lo so, è demenziale come cosa, e posso assicurarvi che, con la voce ancora roca dalle canne, l’effetto era come quello di Marco Carta che canta Highway to Hell).
La reazione fu quasi istantanea: avevo la faccia di Dio davanti agli occhi a meno di venti centimetri, e per un istante mi sentii come il soldato Cowboy davanti al Sergente Hartman. Ma visto che il sergente medesimo non aveva fettine di cetriolo sugli occhi per stimolare i pori dormienti, la mia prima reazione fu di scoppiare a ridergli davanti.
Son soddisfazioni.
<<Complimenti per il cosplay da insalata greca. Il verde ti dona molto>>
Mi trovi carino, soldato Palla di Latta? Ti sembro forse buffo?
<<Signorsì, certo, signore!>>
E giù nuovo assolo di chitarra. Con aria di sfida al grande capo.
<<Cosa intende farmi, signore? Cetriolarmi a morte?>>
Oh, molto meglio di questo, ragazzino…
Troppo tardi mi accorsi del modo in cui alternava lo sguardo tra me e le corde della chitarra, sorridendo. La lucidità non è il mio forte, come forse avrete intuito dai vari livelli diconsecutio temporum vagamente assimilati al flusso di coscienza, e la minaccia divenne lampante solo quando fu inevitabile.
Sai che sensazione si prova quando una corrente elettrica viene indotta attraverso un cavo di metallo?
<<Ma di che diamine…?>>
Non riuscii a finire l’affermazione che con uno schiocco si staccarono tutte e sei le corde della chitarra, animate di vita propria, e dirette come serpi elettrificate contro il dorso della mano che giaceva ancora a cavallo della travatura, e nel fatidico istante in cui le sei fruste di metallo vivo stavano per solcarmi il dorso e falciarmi tutti i punti di pressione come nella miglior tradizione della Scuola di Hokuto, non ebbi di meglio che pensare che anche se avessero mancato i punti di pressione la scarica mi avrebbe minimo messo K.O. per qualche minuto, e che io ero là come un cretino a pensare a quanto avrebbe fatto male in questa patetica imitazione di flusso di coscienza, e Joyce non mi era mai nemmeno piaciuto…
SBRANG!!
Rotolai sul pavimento, agonizzante e vagamente sfrigolato, mentre la mano si arrossava da matti e assistevo al ritorno alla normalità del cadavere della mia chitarra. Il corvo, dal canto suo, mi fissava imballato ma incuriosito, gracchiando sommessamente, quasi ridesse. O magari ero io che me lo immaginavo così, nel delirio da elettroni selvaggi che mi cavalcavano ancora lungo il braccio.
Più o meno questa sensazione.
<<Ti venisse la diarrea a spruzzo, ignobile lattuga divina!!!>>
Non preoccuparti, San Tana dei bassi fondi, la mano tornerà come prima nel giro di qualche minuto. Altrimenti, come potresti cucinare?
<<Anche questo, ora??? Chi diavolo credi di essere, una statuetta di Ganesh? Un fottutissimo jizo?>>
Se non tu, chi allora? Sii ragionevole, anche se so che è difficile.
<<Mai sentito il proverbio ‘chi fa da sé, fa per tre’? Ecco, visto che tu sei uno e trino, fatti una cotoletta e non rompere i coglioni!>>
Che caratterino. Nemmeno avessi fatto chissà che. Va bene lo stesso, tanto da oggi non dovrebbero esserci problemi.
<<E questo cosa vorrebbe dire, Grande Lattuga Celeste?>>
Mi rendo pienamente conto che all’epoca non fui molto gentile con il Supremo Architetto dell’Universo, ma soffrivo da cani. E poi aveva ancora un cetriolo su quella specie di occhio a triangolo che portava sulla testa, non ho saputo resistere.
Vedo che la punizione non ti ha tolto la voglia di parlare a sproposito. Ma per stavolta ti perdono, visto che è un giorno di festa.
Mi rimisi a sedere a fatica, guardando la mano che si risanava a vista d’occhio, immagino per merito di quel divino infame che mi sovrastava.
<<Perché hai distrutto un metacarpo e una Fender seminuova? Hai ragione, c’è da esserne fieri!>>
E rise, con quel suo modo che mi dava tremendamente fastidio.
No, mio piccolo formichino. Oggi arriva un nuovo ospite! Contento?
<<Minchia! Contentissimo! Già che ci sei perché non mi crocifiggi fuori dalla porta e fai usare le mie palle come batacchio?>>
Sai che come idea non è male? Ci penserò.
Nel mentre, sentii l’odiosissimo, nefasto rumore del campanello. Ma da bravo padrone di casa mi alzai e andai ad aprire, sperando inconsciamente nell’arrivo della troupe di “Scherzi aParte” a porre fine all’incubo, ma con l’inconscio settato al livello zero del mio possibilitometro. L’ottimismo non era dalla mia.
Guardai la maniglia, per la seconda volta da quando era arrivato Francesco, e mi risaltò la solita menata sull’utilità delle maniglie ecc. ecc. che vi risparmio perché io sono misericordioso (non come certi tipi che lasciamo perdere) e aprii.
Le mie speranze che fosse tutto uno scherzo si svamparono nell’immagine stagliata contro la soglia di un uomo piuttosto alto, con un tatuaggio appena visibile sulla base del collo (“Non coerceri maximo, contineri minimo, divinum est”), Rayban in bella vista e buste della spesa come se piovesse appese ai massicci avambracci. A completare il quadro, un sigaro Avana acceso tenuto a lato della bocca, ruminato con decisione, e muscoli così tonici che a Johnny Bravo si sarebbe ammosciato il ciuffo e sarebbe sorta la voglia di darsi al monachesimo. Sulla canotta bianca campeggiava il messaggio a lettere gotiche nere “Jesuits do it better”, e i pantaloni a vita bassa sembravano appesantiti per qualcosa di non visibile, al momento.
Sembrava una sorta di CJ, quello di Grand Theft Auto, per intenderci, non fosse che l’accento ispanico che tirò fuori quando mi salutò. Molto poco messicano, molto più iberico.
Hola, muchacho. Y così tu saresti Salvador, l’ospitante de las almas divinas. Piacere di conoscèrti, yo soy Ignacio, quello di Loyola.
Gli strinsi la mano, interdetto ma comunque più contento del solito. In primis, perché almeno era arrivato con la spesa. E poi, sembrava un tipo a posto, anche se c’era ancora qualcosa che non mi convinceva.
Gira voce su nelle alte sfere che basta presentarsi in questo posto, e si ha ospidalidad. Sei un duro, amigo, me gusta como piensas.
Nel mentre, lo vidi poggiare le buste sul tavolo della cucina e tornare a chiudere la porta.
<<Ehm, non per dire, ma non è proprio così, signor Igna…>>
Non feci in tempo a finire la frase, che subito capii quale oggetto gli appesantiva i pantaloni, e me lo ritrovai puntato a meno di un centimetro dal naso. Lo sguardo di Ignazio si era fatto tremendamente serio.
Oh, niente ‘senor Ignacio’ o cazzate varie. Chiamami zio, se proprio devi, ma non ‘signore’. Mi dà di vecchio.
Detto questo sorrise, alquanto inquietantemente, e rimise la sua P38 nei pantaloni. Io di mio deglutii, cercando di non pisciarmi addosso.
Capii in un istante che non sarebbe andato via. Non so perché, ma certi segnali impercettibili mi diedero questa impressione. E chi ero io per distruggere le speranze di un bravo ragazzo, in fondo?
Donde està la cocina?
<<La ‘cosina’?>>
Seguro…dove si cucina la roba…
<<Ah, la cucina! Là in fondo, perché?>>
Bueno! Allora voy a cucinar para todos!
Lo vidi dirigersi bel bello in cucina, con Shalomm che osservava le natiche di lui con interesse crescente.
Dopotutto era un bravo ragazzo…o almeno, si sperava.
Capii cosa intendeva Dio quando lo vidi all’opera ai fornelli: sembrava che impugnare uno schiacciapatate o una rivoltella fosse lo stesso per lui. E per non farlo sentire spaesato ed essere amichevole mi diressi ad aiutarlo.
<<Vuoi una mano?>>
No, gracias, me encanta cucinare! E poi, mi stai ospitando, è il minimo che possa fare para ti, Capo.
<<Dai, non serve chiamarmi Capo…! Stai già facendo abbastanza senza essere così servile. Grazie comunque>> aggiunsi subito, nel timore che la parola ‘servile’ gli facesse di nuovo prudere le mani.
In verità, farmi chiamare “Capo” da un santo che aveva fondato uno degli ordini monastici più potenti del mondo sarebbe stato fico, ma non mi andava di fare il prepotente in quel modo.
Non ero mica Dio.
Olé! Està pronto! A tavola!
Per l’occasione aveva preparato un piatto non propriamente della cucina ispanica, cosa per cui apprezzai infinitamente i suoi sforzi: ratatouille. L’aroma era delizioso, e i pomodori erano stati cotti alla perfezione, e guarnita con un dispiegamento di crostini davvero sfarzoso.
Gli altri mi guardarono, attendendo che mi servissi. Feci l’errore di considerare questo come un segno di cortesia.
Mi sbagliavo. Ancora una volta.
Mai giudicare un libro dalla copertina, o un santo dalle sue buone maniere.
Per tutta la durata del pranzo, sorrisi e mi servii, tenendo sempre da parte una bottiglia d’acqua da cui mi servii con nonchalance. Poi, appena i ‘ragazzi’ furono liberi, mi addentrai nel bagno con un viso serafico, chiusi la porta a chiave e vomitai a raffica nel lavandino.
Non fraintendetemi, era buonissima, ma piuttosto che “ratatouille con sale e crostini” avrebbero dovuto chiamare il piatto “sale con ratatouille e crostini”.
E come tocco finale, quando cercai di sciacquarmi la bocca e il viso, sentii una sorta di presa appiccicosa sulle mani, e un liquido ambrato tra i palmi.
Sospirai, ringhiando rabbioso.
<<Tequila…maledetto bastardo…>>
Quell’essere aveva davvero un senso dell’umorismo grottesco…


                                                                                                             (c)Sigmund&Fafnir

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