sabato 4 maggio 2013

Stairway to heaven di mattoni gialli: Epifanie e ipoplasie



Ed eccola lì: solitaria nella notte va, se la incontri gran paura fa, il suo volto ha la maschera.
Tigre?
No, sfiga.
E sfiga karmica, per giunta. E scommetto che ora mi guarda, scruta con aria di vittoria la mia nuova sconfitta(per quanto possa scrutare una concomitanza cosmica di eventi personificata dal mio stato attuale di vittima delle circostanze), con un ghigno a mezza bocca.  E pare quasi che il buio si chiuda zoomando in un quadrato sulla mia testa, in pieno flashback alla “Holly&Benji”. Ricordai all’istante quello che mi aveva accennato il Creatore, quel commento sulla consapevolezza dell’inutilità del mio gesto, e maledicendomi mi dissi che forse dovevo ascoltarlo, forse così non me la sarei presa tanto.
Crisi spirituale a parte, ci fu almeno un aspetto ‘positivo’ nella vicenda: mi ricordò qual era il posto della realtà e quella dell’immaginazione; se infatti nei flashback del cartone non succede nulla, e il tempo pare imballarsi per poi riprendere, come se un invisibile giocatore ripigiasse ‘Play’ dopo essere andato a cambiare l’acqua al pipistrello, in quelli reali si rischia di non passare inosservati da parte sia della ragazza che si ha davanti, che di tutti gli astanti che ti circondano. Vuoi per l’essermi bloccato all’improvviso nel bel mezzo della discussione, vuoi per il leggero rivolo di bavetta che mi scende dalla bocca.
Cosa che né a Oliver Hutton né a Benji Price sarebbe mai accaduta.
Beh, forse a Bruce Harper sì.
<<Ehi, tutto a posto?>>
<<Eh…? Oh, sì…sì, sì, scusa, è che mi era venuto in mente un pensiero…>>
<<E hai la mania di sbavare mentre pensi?>>
<<No! No, no, no! È stato un caso! Beh, si è fatto tardi. Ci becchiamo in giro, eh!>>
E me ne andai col sorriso. Da ebete, ma pur sempre un sorriso; urgeva un discorsetto con l’Altissimo quanto prima. Quel diavolo d’un Dio si stava divertendo, e parecchio anche, a creare illusioni dinanzi ai miei occhi per il solo gusto di disintegrarmele l'attimo dopo.
Così non vale.
Tornai a casa incazzato come un castoro a cui rompono la diga, e mai la soglia del mio appartamento aveva sentito tante volgarità mentre mi dirigevo a passi decisi verso la mia camera. Non che ci fosse nulla di male nel fatto che lei fosse cattolica praticante, intendiamoci: ognuno è libero di impiccarsi come vuole, e che la corda sia di canapa o di seta, la differenza è poca.
Il vero problema della questione era che avevo un dio, anzi, il Dio in casa, il che mi privava di qualsivoglia possibilità non solo di portarla in casa per provarci (se mai avesse voluto starci: il cattolicesimo è alquanto rognoso in quel senso, ed è paradossale per una religione imperniata sul ‘Crescete e moltiplicatevi’), ma anche di raccontarle una minima traccia dei miei vissuti recenti, non ultima la maratona di film di Naruto vista appeso sul soffitto (e l’odore di brandy sparso per casa non aiutava a restare lucidi). Pensai ancora a quella povera ragazza, e scrollai le spalle sospirando: fosse venuta a conoscenza che il Dio delle sue preghiere era l’incrocio malriuscito tra Dorian Gray e James Dean, credo che nel migliore dei casi le sarebbe venuto un colpo.
Nel peggiore, lo avrebbe limonato. Rapprividii al solo pensiero.
Giunto in camera, aprii l’anta del Karmadio (come avevo ribattezzato provvisoriamente il mobile interdimensionale) per vedere se Gandalf il Bianco era tornato, ma trovai solo il solito straccetto logoro. Lo richiusi con una sensazione indefinita in corpo e mi diressi in cucina, dove la mia incazzatura sbollì sostituita dalla fame atavica che ogni studente fuori sede incontra almeno una volta alla settimana (nella fattispecie, ciò avviene quando non ha fatto la spesa e manca mezz’ora alla chiusura dei negozi…indovinate per merito di chi? Bravi…) e notai un bigliettino caduto sul pavimento. Me ne accorsi solo perché cercavo le carote nel cassetto del frigo: tendenzialmente, evito di guardare il pavimento per non farmi prendere dallo scrupolo di pulirlo; se poi consideriamo che ero reduce da una pulizia piuttosto approfondita dello stesso, la mia volontà di fare il bis era scesa sotto lo zero.
Ad ogni buon conto, raccolsi il biglietto e lo lessi: era il padrone di casa, riconoscibile per la grafia da medico della mutua (e in quanto tale illeggibile), che mi ricordava che il 23 e il 24 p.p.v.v. sarebbero arrivati i due nuovi coinquilini. Quel giorno era proprio il 23, quindi con le mie capacità deduttive capii che almeno uno di loro stava per arrivare. Bene, almeno non avrebbe dovuto fare i conti con epifanie mistiche appena entrato dalla porta. Il mio timore, però, era che arrivasse un altro strambo al pari di Shalomm, e già sapevo che non avrei potuto sopportarlo senza dover cambiare nome in Norman Bates. Passai mezz’ora a girarmi i pollici, e proprio quando stavo per rinunciare e tornare a procacciarmi qualcosa di commestibile, suonò il campanello.
Mi fermai davanti alla porta, immobile, cominciando a immaginare come potesse essere il nuovo coinquilino, se fosse alto o basso, brutto o bello, idiota o intellettuale, socievole o psicotico, un santo, un drago, un hobbit, un leghista, o qualche altra mostruosa creatura mitologica. Ero preparato perfino a Freddie Mercury in tenuta casalinga e aspirapolvere che entrava cantando “I want to break free” nel momento in cui aprivo la porta.
In effetti, quei pochi minuti di convivenza con Shalomm mi avevano stravolto non poco.
Poi, per qualche strana ragione, mi misi a guardare la maniglia. La fissavo, e fissandola cominciai a pensare (ecco, già vi sento sbuffare “È tornato il filosofo”: e vi darei anche ragione, ma io vi avevo avvertito) a quanto le maniglie fossero importanti per gli esseri umani: come importanza, direi che erano alla pari con molte invenzioni umane basilari, tipo la ruota, la carta igienica, o i profilattici al gusto frutta. Per certi versi, anche più importante.
Riflettiamoci un attimo: la ruota ha solo una funzione, girare, e se ha cambiato così drasticamente il nostro modo di fare è perché in realtà è il mondo che è cambiato per stare al suo passo; le maniglie invece  sono un’invenzione ragionata, quasi estrosa, tale da permetterti non solo di uscire o entrare, o far uscire e entrare persone, animali e oggetti, ma anche occasioni e speranze, gioia e felicità, tali da migliorare o rovinare la tua vita col solo muoverla, ma anche di isolarci, di proteggerci, di tagliare fuori le cose spiacevoli, garantendo sia la sanità mentale che quella fisica.
Mi sa che le tubature si erano rotte di nuovo.
Aprii la porta.
Prima ancora degli occhi, fu il mio naso a percepire il nuovo arrivato: un tanfo dolciastro che avevo imparato a conoscere dalle innumerevoli domeniche allo stadio con mio padre. Poi toccò alle orecchie: un grugnito, di quelli che ti portano alla mente scene di taverne in riva al mare e atmosfere piratesche. Quindi, gli occhi.
C’era un uomo davanti a me, vestito di pantaloni larghi di lino beige, maglia verde ad ombrello sul magro torace, cappello di lana coi colori giamaicani, una campanella al polso, e in bocca il marchio distintivo di ogni rastafariano che si rispetti: uno spinello travestito da sigaretta rollata, acceso da poco. Ma la cosa anormale di quell’apparizione (come se ci fosse qualcosa di normale, poi…) erano le amabili bestiole che quel Bob Marley ossigenato si portava appresso: un maiale dall’aria timida che stava accanto alla sua caviglia, un lupacchiotto dall’altro lato che si grattava un orecchio con la zampa per poi leccarsi l’inguine, e un’aquila che mi fissava truce dalla sua spalla.
Bella, fraté. Io so’ Francesco. Che c’è per cena?
In quel momento il mio omino del cervello si lasciò cadere sulla poltrona del cervello mettendosi le mani in faccia e mormorando: “Oh, no…!”. Lo strano accento, che identificai come umbro, gli occhi azzurri e la presenza di quegli animali mi avevano messo all’erta. E in un solo istante capii che la mia vita non sarebbe mai più tornata come prima.
Perché quel tizio lì, sicuro come l’oro, era Francesco di Bernardone, alias San Francesco, meglio noto come “l’uomo che sussurrava ai fringuelli”.
E da ben prima di Del Piero.
Ero annichilito e sconfortato, e non trovai di meglio da fare che balbettargli il mio nome e invitarlo a entrare. Tornai in cucina, ansioso di farmi un bicchiere d’acqua di rubinetto per placarmi i nervi. Ma dopo averlo riempito e buttato giù in un colpo, ecco che la sensazione bruciante lungo l’esofago mi riporta alla realtà miseranda della mia esistenza. Questo perché:
      1)la mia vita era diventata un autentico macello, piena com’era di santi e di patriarchi biblici;
      2)sul divano della cucina era tornata la strana coppia a guardarmi sghignazzando;
   3)avevo appena ingollato 23cc di gin fizz, prova inequivocabile del mio sospetto che le tubature si fossero fottute ancora.
Quindi, decisi dentro me di accettare la situazione, almeno per il momento, e che fosse per il mio essere stremato nella lotta contro quel mostro ultraterreno, o per la mia scarsa attitudine al cambiamento, o per la sbornia imprevista e impellente, mi diressi strisciando in camera mia e mi addormentai di botto sul materasso. Ovviamente, però, prima detti una capata allucinante alla testiera di legno del letto, di cui sentii le conseguenze la mattina dopo al mio risveglio.
Tutto era tornato normale.
Va da sé che comunque ‘normale’ ora è solo un mero termine speculativo, avendo la ‘normalità’ abbandonato la mia vita da un bel pezzo.
Se mai ci aveva soggiornato.




                                                                                       (c) Sigmund&Fafnir

Nessun commento:

Posta un commento